Così Zuchtriegel affronta la sua nuova sfida a Pompei


Cultura / venerdì, Dicembre 3rd, 2021

Un’idea globale sull’archeologia partecipata, una visione no gender della ricostruzione storica e una concezione non piramidale dei rapporti lavorativi: così Gabriel Zuchtriegel si presenta al suo nuovo incarico, la direzione del Parco Archeologico di Pompei, dopo 5 anni con lo stesso ruolo a Paestum.

Lei è di origini tedesche ma dallo scorso luglio è anche cittadino italiano. Quando c’è stato il suo primo incontro con l’Italia?
Sono rimasto affascinato dall’Italia fin da quando con il liceo, a 17 anni, feci una gita a Roma e vidi gli scavi di Ostia. Mi colpì soprattutto la presenza in queste città di un patrimonio diffuso e la convivenza dell’antico, del medievale e del contemporaneo. Poi ho fatto l’Erasmus, e sono tornato anche da studente universitario. Seguivo un sogno, quello di diventare archeologo, ma i miei genitori non erano proprio entusiasti perché è un settore difficile. Ho perseguito questa passione che mi ha poi portato a vivere in Italia, cosa che all’epoca non potevo immaginare, nonostante il forte fascino che esercitavano su di me la lingua e la cultura. E non potevo certo pensare che sarei diventato addirittura cittadino italiano.

Ci sono state polemiche quando lei è stato nominato direttore del Parco Archeologico di Paestum proprio perché «straniero», come altri suoi colleghi direttori di musei statali dotati di autonomia. Come ha vissuto questa situazione?
Sono sempre stato accolto in maniera straordinaria e non mi sono mai sentito uno straniero. Nel 2012 andai con la famiglia a Matera, dovevo rimanere lì per due anni per una ricerca sulla colonizzazione greca sulla costa Ionica, Eraclea l’odierna Policoro, da cui è nato il libro Colonization and Subalternity in Classical Greece (pubblicato dalla Cambridge University Press). Poi la cosa si è evoluta, sono andato a lavorare a Pompei per il «Grande Progetto Pompei» e poi a Paestum. Ho vissuto la situazione delle critiche in maniera piuttosto distaccata, non mi hanno davvero toccato nel lavoro quotidiano perché sia i collaboratori che il contesto territoriale mi hanno accolto con grande cordialità. Insomma, il mio essere «non italiano» non è mai stato un problema.

Quindi la richiesta della cittadinanza italiana non è stata una conseguenza?
Sono due cose distinte, ormai sono qui da 9 anni e con due figli, ho vissuto a Roma, a Matera, a Napoli, da cui facevo il pendolare con il treno per raggiungere Paestum, e ora viviamo a Capaccio. Qui mi sento a casa e ho pensato che fosse coerente, che fosse giusto chiedere la cittadinanza. Come membro dell’Unione Europea, perché esiste un iter per i cittadini comunitari, ho presentato la richiesta e mi è stata conferita la cittadinanza italiana, un’esperienza per me molto bella.

Se volessimo tracciare una linea delle sue ricerche nel corso degli anni in quale direzione andrebbe?
L’archeologia per me è sempre stata non tanto la storia dell’arte antica e dell’architettura, quanto una visione complessiva. È il rapporto tra la società e le sue espressioni architettoniche, urbanistiche, religiose e artistiche, una specie di sguardo antropologico rivolto al passato, la possibilità di scoprire un mondo molto diverso dal nostro al quale però siamo legati da una tradizione, una continuità che si vede sia nei centri storici come sovrapposizione e stratigrafia, sia nella struttura immateriale come la tradizione occidentale, i manoscritti, i testi antichi che dal Medioevo sono arrivati fino ad oggi. Molte parole che usiamo attualmente hanno un’etimologia antica, come democrazia o matematica: sento il fascino della scoperta di un mondo diverso che è al contempo il nostro, il nostro passato.

Quali scoperte le hanno suscitato più emozione?
È stata molto emozionante la scoperta nel 2019 a Paestum di un tempietto dorico del V secolo conservato in maniera straordinaria che stiamo scavando. Il ritrovamento ci ha rivelato tante evidenze sull’evoluzione dell’architettura in una città della Magna Grecia, i legami con la madrepatria e gli sviluppi che in qualche modo partono dalla realtà coloniale. Un’altra grande emozione per me è stata la ricognizione archeologica che abbiamo fatto nell’hinterland del territorio di Eraclea in Lucania, nell’odierna Policoro, dove abbiamo studiato e cartografato principalmente frammenti di tegole e di ceramica. All’epoca ero a Matera e da questo lavoro è nato il libro per Cambridge. Vorrei ribadire il concetto che ho dell’archeologia non solo come studio di oggetti o monumenti belli ma anche di tracce molto effimere. La vera scoperta, infatti, non era l’oggetto in sé ma il paesaggio che si è trasformato nei secoli. Quindi abbiamo fatto riemergere una parte della vita delle popolazioni rurali, dei ceti subalterni che nella storia ufficiale, quella scritta, spesso non trova espressione né voce. L’archeologia è anche questo, un archivio molto diverso da quello degli storici. Ovviamente è fondamentale lavorare insieme perché l’oggetto è lo stesso, lo studio del passato, ma noi non abbiamo un archivio controllato e ordinato secondo lo sguardo elitario maschile che domina i testi storici. La maggior parte dei testi, delle fonti sono scritti da uomini, pochissimi da donne, che appartenevano alle élite e quindi potevano permettersi di dedicarsi a questi studi, come per esempio Tucidide o Erodoto. L’archeologia invece ha un archivio di oggetti che sono muti, che è difficile far parlare ma attraverso i quali possiamo tentare di ricostruire una parte della vita del passato, della realtà sociale e culturale di quell’epoca che nei testi ufficiali spesso non emerge o emerge da un’altra prospettiva.

Com’era la situazione quando è arrivato a Paestum e come pensa di aver fatto la differenza rispetto alla precedente gestione?
Non c’è una ricetta ma bisogna investire nella conservazione e nella conoscenza. Abbiamo messo in moto tanti progetti e attività lavorando quotidianamente su molti aspetti. Siamo stati e siamo ancora oggi un sito che è aperto a collaborazioni con università italiane e straniere, però abbiamo anche sviluppato un nostro programma di scavi e di ricerche d’archivio e nei depositi, i cui risultati spesso sono connessi con mostre o con attività di comunicazione e di fruizione. Abbiamo investito molto nell’accessibilità e nell’abbattimento delle barriere come per la cosiddetta Basilica, il primo tempio greco ancora in piedi accessibile senza impedimenti architettonici. Sono stati fatti investimenti nella motivazione e nella formazione del personale cercando di valorizzare le capacità e le professionalità interne, ampliando anche le competenze con dei collaboratori esterni. Si è lavorato molto sulla comunicazione, per esempio quando sono arrivato non c’erano i social, c’era un sito web che non funzionava e non c’era un ufficio stampa. Abbiamo costruito tutto questo lavorando anche molto sulla gestione cercando di fare una programmazione delle attività e con interventi di monitoraggio. Proprio in questi mesi sono terminati i lavori di monitoraggio sismico in tempo reale con dei sensori di ultima generazione sul tempio di Nettuno. Questo progetto, le ricerche e gli scavi sono stati parzialmente o interamente finanziati con donazioni e sponsorizzazioni anche grazie all’ArtBonus, che ci hanno dato una grande mano nelle ricerche e nella tutela.

Come valuta la situazione dei beni culturali in Italia?
Grazie alla Riforma di alcuni anni fa (Franceschini, Ndre anche ai tanti ricercatori e accademici impegnati su queste tematiche l’Italia ha un ruolo all’avanguardia nei beni culturali. Penso da un lato alla presenza di un patrimonio diffuso: l’idea dell’Italia come un museo a cielo aperto è molto stimolante per elaborare strategie integrate complesse per la tutela e la gestione dei beni culturali. Ma penso anche alla grande tradizione/dibattito in Italia sul tema dell’archeologia pubblica, quindi allo sviluppo dell’archeologia in un’ottica di partecipazione, di apertura verso i territori, di condivisione non solo dei risultati delle ricerche (come il vaso nella vetrina o il monumento musealizzato) ma anche l’iter della scoperta, l’apertura dei cantieri, la possibilità delle visite, l’uso del digitale, come abbiamo fatto a Paestum, per spiegare come funziona lo scavo o come funziona un restauro.

Quindi secondo lei la riforma Franceschini ha fornito approcci più moderni ai beni culturali?
Ogni riforma cerca di rispondere alle esigenze della comunità. In Italia un tempo hanno funzionato molto bene le Soprintendenze che gestivano anche i musei ma nel corso del tempo hanno mostrato una serie di criticità a cui l’autonomia ha risposto in maniera molto efficace. I timori di chi inizialmente pensava che la riforma avrebbe potuto staccare gli istituti autonomi dal contesto territoriale non si è verificata, abbiamo visto il contrario: questi luoghi si sono integrati ancora di più grazie alla possibilità di stipulare accordi, di collaborare, di ospitare iniziative che venivano proposte dal territorio. Prima le attività dovevano passare dagli uffici centrali della Soprintendenza che a volte era a centinaia di chilometri di distanza. Inoltre oggi c’è la possibilità di coinvolgere anche sponsor e sostenitori, associazioni come gli amici dei musei… E tutto questo è fiorito grazie al nuovo modello di gestione.

C’è differenza nell’idea di beni culturali rispetto alla Germania?
Sicuramente si potrebbe dire molto a riguardo ma una differenza è che in Italia, per fortuna, i beni culturali sono vissuti come una cosa di interesse pubblico, c’è grande attenzione anche sulla stampa e nella società su queste tematiche. È un dato effettivamente positivo ma l’effetto può essere anche quello delle molte polemiche, espressione comunque della passione che viene da una società che vuole sapere, che ha diritto di conoscere come si gestiscono i beni culturali, quali sono le novità, le nuove scoperte, le nuove strategie anche per la tutela e la fruizione pubblica del patrimonio. In Germania vedo molto meno interesse, ad esempio, per le nomine dei direttori dei musei; anche le attività che fanno i musei sono un tema meno discusso sui giornali. In Italia c’è grande interesse anche da parte della popolazione locale, nei territori dove si trova ad esempio il Parco Archeologico di Paestum, per quello che proponiamo e che facciamo come sito autonomo del Ministero della Cultura.

Qual è la sua idea di un museo pubblico?
Per assolvere veramente la sua funzione, il suo ruolo pubblico/privato, il museo deve essere un luogo per tutti, un punto di riferimento per il territorio, con porte aperte, e deve puntare sul dialogo, cioè superare un modello vecchio di comunicazione di museologia unidirezionale. Il museo oggi insegna e comunica. Dobbiamo «condividere» la nostra conoscenza con il pubblico, grazie a linguaggi comprensibili e inclusivi, ma dobbiamo anche cercare nel nostro lavoro di far emergere la voce del pubblico e della contemporaneità. Mi piace pensare ai musei come veri e propri centri culturali e sociali innanzitutto per i territori a cui appartengono, nel caso di Paestum anche per tutto il mondo, in quanto patrimonio Unesco. Cioè con una vocazione mondiale, che però parte sempre dai territori.

Con lei Paestum è arrivata fino in Cina. Com’è andata?
Negli ultimi anni ci sono state molte mostre all’estero che includevano reperti da Paestum, ma quella in Cina è stata la prima esclusivamente su Paestum fuori dall’Europa. Abbiamo cercato di raccontare al pubblico cinese Paestum e anche il Mediterraneo antico come uno spazio storico geografico, per dare visibilità a tutta la Magna Grecia, in un Paese che ha una grande voglia di viaggiare e di scoprire il patrimonio culturale europeo ma che finora non si è mosso molto nell’Italia meridionale. Solo una piccola percentuale di pubblico internazionale (prima della pandemia si parlava del 15% circa) andava oltre Roma verso il Sud, quindi il nostro progetto si inserisce in un più ampio tentativo di far scoprire la grande ricchezza culturale storica del Sud e penso anche ai paesaggi, ai borghi, ai siti e ai musei dell’Italia meridionale. Erano previste quattro tappe, per la pandemia una è stata chiusa e poi riaperta. In pieno lockdown, in Italia tutti i musei erano chiusi e Paestum ha riaperto, ma ha riaperto in Cina. È stato un segno, un raggio di speranza.

Quale futuro attende i musei e i beni culturali? Che cosa cambierà dopo la pandemia?
Dobbiamo cercare di puntare su una fruizione e su un turismo più lenti. Cerchiamo di far scoprire più territori, i paesaggi culturali. Credo che le persone stiano cambiando atteggiamento alla luce della pandemia, un’esperienza traumatica per tutti noi. Possiamo dire che abbiamo già un segnale positivo in questa direzione dall’estate scorsa, quando abbiamo visto un boom del turismo culturale nel Cilento, nel nostro territorio, fatto di persone, di famiglie, di viaggiatori, la maggior parte italiani che venivano da Milano, da Roma, da Torino ma anche da più vicino. Hanno scoperto una parte del loro Paese che forse non conoscevano e dove spero vorranno tornare. Abbiamo sentito questo fenomeno soprattutto a Velia, che è stata accorpata a Paestum nel febbraio dell’anno scorso, dove abbiamo avuto nel mese di agosto un aumento del 120% di visitatori.

Ha spesso sottolineato la modalità della «condivisione», con i colleghi e con il suo staff.
Una gestione all’altezza dei tempi prevede chiaramente un teamwork: vuol dire che come dirigente si devono valorizzare le professionalità, le capacità e la creatività delle collaboratrici e dei collaboratori, assumere decisioni condivise. È una modalità oramai diventata patrimonio comune, non è nemmeno una novità. Forse in alcuni ambiti della Pubblica Amministrazione questo processo è un po’ più lento. Il passaggio dall’idea del dirigente come vertice di una piramide a struttura gerarchica a una gestione un po’ più fluida e inclusiva, che riesce meglio a valorizzare le competenze e le capacità che sono presenti nei nostri luoghi di cultura, penso sia davvero lo sviluppo indispensabile del nostro presente.

Pubblicato su Il Giornale dell’Arte n.416 aprile 2021