Il macaco di Shahr-i Sokhta


Cultura / venerdì, Dicembre 3rd, 2021

Dopo cinque anni dalla firma del protocollo d’intesa internazionale tra le autorità iraniane e l’Università del Salento, i risultati più recenti degli studi a Shahr-i Sokhta sono contenuti nel volume appena pubblicato Scavi e ricerche a Shahr-i Sokhta, curato dal direttore del progetto Maips (Multidisciplinary Archaeological Italian Project at Shahr-i Soktha) Enrico Ascalone dell’Università di Gottinga, e da Seyyed Mansur Seyyed Sajjadi dell’Iranian Center for Archaeological Research (che a Shahr-i Sokhta scava dal 1997), direttore del progetto archeologico.

Risalente al IV millennio a.C., il sito di Shahr-i Sokhta, di circa 300 ettari di estensione in Iran, vicino al confine con l’Afghanistan, è inserito nella Lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità e rappresenta un punto di confluenza culturale significativa delle esperienze maturate dalle grandi civiltà fluviali (Oxus, Indo, Tigri-Eufrate e Halil) dell’Asia media, centrale e meridionale.

Il progetto multidisciplinare, di cui il libro è il primo report, vede coinvolti alcuni Laboratori del Dipartimento dei Beni culturali dell’Università del Salento: Topografia antica e fotogrammetria con Giuseppe Ceraudo, anche coordinatore del progetto per Unisalento, Antropologia fisica con Pier Francesco Fabbri, Paleobotanica e paleoecologia con Girolamo Fiorentino e Archeozoologia con Claudia Minniti.

Le indagini italiane vengono fatte affiancando sul sito lo staff iraniano con missioni della durata di circa un mese (la prossima probabilmente sarà verso la fine di quest’anno), durante le quali si raccolgono i dati che poi si elaborano in Italia, ognuno per le proprie competenze. Tuttavia, secondo il professor Giuseppe Ceraudo: «L’esperienza a Shahr-i Sokhta presenta alcune difficoltà: la missione si trova a 15 chilometri dal confine con l’Afghanistan, isolata su una strada a larga percorrenza lungo la quale ci sono postazioni militari e torrette con mitragliatrici. La vita della missione è relegata al campo dove siamo tutti alloggiati.

Ci sono piccoli centri che distano alcuni chilometri, ma sono solo degli agglomerati, non proprio delle città, che distano invece alcune centinaia di km. Ci viene raccomandato come comportarci, come agire; si percepisce la situazione di rischio, ma non abbiamo mai avuto problemi. L’altro aspetto difficile è quello meteorologico: siamo all’interno di una zona desertificata e il clima, anche nei momenti migliori, può avere mutamenti repentini. Si può scendere sotto lo zero durante la notte mentre di giorno, con il sole che batte, le temperature si alzano e spesso c’è vento che oltre a essere fastidioso è un problema per i droni.

Compito della topografia antica è quello di ricostruire il paesaggio e il rapporto con l’uomo nell’antichità. Tentiamo di capire all’interno dei 300 ettari di insediamento come si sono articolate le attività in un contesto territoriale che adesso è abbastanza complicato, ma che doveva avere problemi di condizioni atmosferiche anche in passato, visto che si suppone che la fine di questa città sia dovuta proprio ai cambiamenti climatici. Il nostro laboratorio lavora con immagini aeree, satellitari, in remote sending, con foto scattate anche più a bassa quota, ad esempio con i droni, per individuare eventuali tracce lasciate dall’uomo sulla superficie.

Intorno a questo insediamento c’era una serie di antichi laghi salati, poi prosciugatisi: l’alta percentuale di salinità nel terreno ha così preservato manufatti e murature fatte in argilla cruda che normalmente con la pioggia si sarebbero sciolti, come anche le mura che si sono eccezionalmente conservate».

Ad oggi solo una piccola parte di Shahr-i Sokhta è stata investigata, il progetto multidisciplinare ha aiutato anche nello studio della vasta area della necropoli, esplorata già in passato, ma che solo recentemente ha riservato la sorpresa dello scheletro di un macaco, animale non caratteristico del posto ma delle aree del blocco orientale, inizialmente attribuito a quello di un bambino per la tipologia di sepoltura umana e per la posizione rannicchiata.

Tale ritrovamento è una delle conferme, insieme agli innumerevoli reperti di lapislazzuli e alabastro, della propensione degli abitanti alla lavorazione e al commercio e dell’importanza del contesto geografico di grande passaggio di Shahr-i Sokhta.

Pubblicato su Il Giornale dell’Arte n. 416 aprile 2021